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Nasce,
con il minimo di presunzione e il massimo di serietà, la prima edizione del Ten
of the Year, indetta da Festival del Cinema Italiano che vuole, attraverso la
visione e l’esperienza riguardanti le maggiori manifestazioni nazionali ed
internazionali, votare i dieci film che per un motivo o per l’altro hanno
segnato un’intera annata, relegando la scelta solamente a quelli passati in
concorsi ed eventi.
La scelta, nonostante l’affossamento continuo ed estenuante del cinema moderno, è stata particolarmente ardua che però rappresenta un continuo e produttivo stimolo artistico, il quale però viene confinato solamente ai festival nonostante sia apprezzato e condiviso, lasciando alle sale e agli esercenti, qualche scampolo di settima arte e una grande fetta di commercializzazione. Ecco il nostro elenco:
La scelta, nonostante l’affossamento continuo ed estenuante del cinema moderno, è stata particolarmente ardua che però rappresenta un continuo e produttivo stimolo artistico, il quale però viene confinato solamente ai festival nonostante sia apprezzato e condiviso, lasciando alle sale e agli esercenti, qualche scampolo di settima arte e una grande fetta di commercializzazione. Ecco il nostro elenco:
10.
Tai Chi 0 di Yan Xiaochao
Per
la sua verve steampunk, il suo connubio eterogeneo di intenti e la fusione di
diversi stili in altrettante diverse epoche nella cronologia giapponese che lo
rendono una pellicola innovativa che si distingue dalla massa.
9.
Moonrise Kingdom di Wes Anderson
Per
il suo stile perfetto e riconoscibile che mostra il picco più alto della
filmografia del suo creatore, giocando tra piccoli amanti ed esistenze
travagliate, violenza gratuita e influenza orientale, il tutto trasmesso con
piacevole ironia.
8.
Miracolo a Le Havre di Aki Kaurismäki
Per
il ritorno prepotente di un grande regista che tratta il tema scottante dell’immigrazione
con poetico e miracoloso impatto, giostrando una storia di paese attraverso gli
occhi di un giovane di colore e di un vecchio lustrascarpe.
7. The Flower of War di Zhang Yimou
Per
la consacrazione a livello internazionale di uno dei registi orientali moderni
di maggiore creatività, coadiuvato dall’interpretazione di Bale, da un budget
di tutto rispetto e da una trattazione storica che mostra il lato perverso
della guerra.
6.
Hugo Cabret di Martin Scorsese
Per
aver reso la terza dimensione un concetto non solo visivo, ma soprattutto
artistico e per aver mostrato al contempo uno stile inconfondibile stimolato
dal citazionismo più puro che regala spezzoni di grande cinema.
5.
Amour di Michael Haneke
Per
l’abilità con cui accorda amore, sensibilità e cinismo, spezzettando il quieto
vivere senile, attraverso i due strepitosi protagonisti, portando il concetto
che dà il nome al titolo ad un gradino più alto, senza età.
4. The Tree of Life di Terrence Malick
Per
la dimestichezza e forza con cui mescola concetti astratti al vissuto
quotidiano, fatto in questo caso di violenza domestica, perdita della fede e
soprattutto di una visione onirica del significato ultimo della vita stessa.
3.
Una separazione di Asghar Farhadi
Per
l’abilità con cui il regista iraniano si è distinto nella narrazione, eludendo
la morsa delle censura e costringendo attraverso una storia familiare ad un
perpetuo moto di domande che lui stesso ci porta a comprendere.
2. Beasts of the Southern Wild di Behn Zeitlin
Per
il modo con cui il regista, alla sua prima opera, gestisce il protagonista bambino,
diviso tra accudire il padre malato e andare alla ricerca della madre, il tutto
dipanato attraverso un cataclisma che risveglia creature preistoriche e
calamità naturali.
1.
Pietà di Kim Ki-duk
Per
l’eccesso delle sfaccettature dei suoi personaggi, per la maestria di cui il
regista coreano ci saggia in ogni occasione, strabiliando in questo caso per
gestione degli interpreti, fotografia e sceneggiatura, in un affresco che
chiede aiuto all’arte stessa.
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